Sono particolarmente angosciata
perché per strada ho già cominciato a chiedere
agli Italiani in macchina
che ho incontrato – ce ne sono molti in città – un passaggio
per rientrare. Ho ricevuto ogni volta un rifiuto. Non collaborano, si chiudono a riccio,
forse
perché non si fidano. Certo, è duro solidarizzare quando si ha paura, anche se
il
pericolo dovrebbe cementare lo spirito di gruppo. Il passaggio in macchina
è, d’altronde,
obbligato, è l’unica possibilità, perché treno e aereo sono
bloccati. Comincio allora a
pensare ad un’opportunità che
l’indomani voglio verificare.
Ed eccomi pronta a partire con “armi e
bagagli” - si fa per dire - e se tutto
va bene. Irena mi
accompagna. Per il mio soggiorno aveva preso le ferie presso
lo studio di
architettura dove lavora. saliamo verso Mala Strana. Io ho una patria
d’elezione, la Francia, tradizionalmente”terre d’accueil”. Voglio
raggiungere
quell’ambasciata per tentare di uscire dal paese.
Nel
piazzale davanti alla sede dell’ambasciata francese vediamo una piccola
folla
che si va via via ispessendo e tante macchine, quando arriviamo.
Persone e auto in attesa di partire davanti all'Ambasciata Francese |
Le macchine cominciano a organizzarsi in una carovana. |
Riesco con facilità a incontrare i
responsabili dell’organizzazione per l’emergenza, che si rivelano gentili
e disponibili in modo nient’affatto formale verso di me. Mi
informano
subito che hanno organizzato una colonna di macchine per portare fuori
dal
paese le persone che lo hanno richiesto. Purtroppo le auto attualmente
disponibili
sono occupate. Ma non devo scoraggiarmi. La prossima vettura che
sopraggiungerà,
con un posto libero, sarà la mia opportunità. e, in effetti,
non è neanche lunga l’attesa.
La
colonna di macchine è pronta a partire.
|
Una Mini
Morris arriva con due giovani a bordo. Si presentano come
due giornalisti francesi e sono addirittura contenti che io faccia il viaggio
con loro, perché,
sostengono, grazie alla tradizionale
galanteria slava,
il materiale fotografico cui tengono tanto potrà passare il
confine se io me
lo terrò addosso; certamente i militari non si permetteranno mai di perquisire
me. C’è, piuttosto, ancora qualche problema da risolvere. Non possiamo da
subito seguire la colonna perché i due giovanotti devono
restituire le chiavi
del residence universitario e devono ancora scattare
alcune foto alla tomba
di Kafka al vecchio cimitero ebraico.
Raggiungeremo successivamente la
colonna in marcia. E’ sufficiente conoscere
con precisione l’itinerario che i
responsabili intendono seguire .
Perciò andiamo insieme a documentarci e
ad avvertire delle nostre necessità i funzionari alla guida dell’organizzazione.
E’ il momento duro dei
saluti in un contesto penoso. Irena aspetta,
impietrita,la nostra partenza.
Irena
nel momento degli addii davanti alla Mini Morris che mi ha dato un prezioso
passaggio.
|
La
violenza della separazione è molto dolorosa anche per me. In un certo
senso mi
sembra di fuggire, abbandonando i miei amici alla loro sorte che, al
momento,
non promette niente di buono. Cerco
di distrarmi pensando al
privilegio di poter visitare, nonostante tutto, la
tomba di Kafka. All’arrivo
l’atmosfera è, ancora una volta,assurda. Viene ad aprirci il cancello cigolante
un piccolo vecchio ricurvo con una berretta di lana e gli occhialetti tondi
scesi
sul naso – che sia il padre del Golem? – che ci accoglie come se tutto
quello che
sta accadendo non esistesse per lui. Ci accompagna attraverso
l’accatastamento
caotico delle antiche lapidi con passo instabile, ma con guida
sicura, fino alla
tomba del grande scrittore e poi, discreto, si
allontana.
L'accumulo delle lapidi ...
|
... nel vecchio cimitero ebraico di Praha. |
Preparativi per la foto alla tomba del grande scrittore......
..e anche la foto alla tomba del grande scrittore è ormai acquisita |
Alla
conclusione della visita, prima di risalire in macchina,troviamo
un gruppo di
persone che ci pregano, una volta che avremo superato la frontiera,
di impostare le
lettere che desiderano affidarci, destinate ai loro cari lontani.
Volentieri ci
assumiamo l’impegno. Altri spessori sotto i miei abiti, per fortuna
non così
leggeri come la stagione imporrebbe. L’ansia ha accentuato la mia
natura
freddolosa e poi ho creduto furbo alleggerire il bagaglio mettendomi
addosso il
più possibile di indumenti; come una cipolla strato su strato...
Accetto
i miei compiti delicati con la consapevolezza del pericolo insito,
ma non
ho paura. Svolgo semplicemente il ruolo che è più adatto a me.
E’ il modo che
mi si presenta per fare anch’io la mia parte e rendermi
utile.Profittiamo
dell’incontro per chiedere indicazioni sull’itinerario da
seguire per
raggiungere la carovana. Una volta riconsegnate le chiavi
all’università, Riceviamo segnali incoraggianti e decisi, ancora una volta,
sulla direzione da seguire. Anche qui uomini e donne di ogni età e condizione,
appena
individuata la targa straniera, si sono fatti intorno e hanno posto
con ansia
domande. “Verso
dove intendete dirigervi?”“Quando
avete
deciso di partire?”I loro
parenti si trovano in Francia, in Germania,
in Nuova Zelanda,in Canada, negli
USA. Ci chiedono se possiamo
promettere di far partire la posta per i parenti
lontani che ricevano così
notizie dirette sulla realtà attuale delle loro
famiglie e della loro città.
E noi a cercar di rassicurare, a
collaborare, ad essere solidali, per il
poco che ci è possibile, a seguire
diligentemente le nuove indicazioni
che ci offrono per raggiungere la colonna
organizzata e, con lei, la
frontiera.Solo
dai giornali, molti giorni dopo, riuscirò a capire che
cosa era successo. A
rendermi conto perché non eravamo mai riusciti
a riunirci alla colonna
dell’ambasciata e ci eravamo trovati, al tramonto,
in mezzo a una foresta di
abeti, a un valico di frontiera talmente
secondario che le uniche costruzioni
visibili erano le garitte dei
doganieri e della polizia di frontiera, oltre al
bel negozio dalle ampie
finestre – a rendere l’ambiente, che profuma di legno e
resina, molto
luminoso – dove una ragazza, sorridente e con le gote arrossate,
scartava con cura i luccicanti cristalli, ad uno ad uno, per
disporli
con ordine e precisione sugli scaffali, come se nulla fosse accaduto
nel suo paese. La dimensione della surrealtà che ritornava:
disinformazione dettata dall’isolamento oppure, ancora una volta,
l’autocontrollo
della ragione?Durante tutto il percorso, infatti, non
avevamo incontrato neppure un militare in divisa, nessun cingolato,
nessun
blindato. Niente di niente. Come se tutto quello che avevamo
drammaticamente
vissuto a Praga non fosse stato nient’altro che un
incubo, un terribile incubo
pieno d’angoscia. In realtà i bravi Praghesi
avevano manomesso tutti i segnali
stradali per disorientare gli occupanti.
A noi, poi, in particolare, le
persone che avevamo incontrato lungo il nostro
solitario cammino, ci
avevano indirizzato, con le loro informazioni, verso
quell’uscita estremamente
secondaria, fuori mano, dove più difficilmente
ci saremmo scontrati con carri
armati e soldati.Ma
le sorprese sgradevoli
non sono ancora finite. Quando i due giornalisti si
presentano al controllo
della polizia cecoslovacca di frontiera, vengo a sapere
che uno di loro non
è per niente francese, ma polacco e, per di più, è senza
passaporto. Niente
da fare. Non sono possibili mediazioni né compromessi,
neppure in una
circostanza così eccezionale.I militari sono inflessibili come
al solito, anche
nel momento più insolito.Mi spoglio allora del materiale
fotografico, lo
restituisco ai legittimi proprietari, conservo la posta
raccolta nella speranza
di poter portare a termine l’impegno assunto, ringrazio
del provvidenziale
passaggio e, con qualche imbarazzo, mi congedo. Loro devono
restare per
forza. Io devo tentare di proseguire. Non so proprio come. Mi metto
pazientemente sul bordo della strada per Vienna e aspetto di nuovo un
passaggio
prima che scenda la notte.Da
questa dannata strada, però,
sembra che non passi proprio nessuno.
L’attesa è molto lunga, disperante.
Finalmente un’elegante auto sportiva blu
notte appare davanti alla sbarra.
Al mio cenno si ferma, quando mi passa
davanti. Non mi pare vero. E’
un’auto italiana con una coppia a bordo.Sono
molto gentili, ma mi fanno
notare con fermezza che proprio non posso salire. In
tutta evidenza i posti
a bordo sono due soltanto e, entrambi, sono già
occupati. Spiacenti,
dunque, ma non c’è posto per me .Rifiuto d’arrendermi
all’evidenza
e per disperazione insisto, propongo di mettermi al posto dei
bagagli
che terrò sulle ginocchia. Per mia grande fortuna ho davanti a me
due
persone con la coscienza vigile, che si rendono conto con realismo
del
ginepraio in cui mi trovo, sperduta tra gli abeti, con la notte che
incombe e nient’altro intorno.Nessun’altro a cui rivolgermi.Arrivo
dunque con loro fino a Vienna. Il breve viaggio serve a conoscerci.
Resteremo amici. Lui è un medico abruzzese con la moglie.Era a
Praga per il
congresso internazionale. Ha la passione del volo a
vela. E’ campione di volo
con l’aliante. Sono due persone rare.
Approdiamo in un albergo tutto specchi e
dorature nel centro di
Vienna, verso mezzanotte .Non posso certo cercare un
altro posto,
a quell’ora, per dormire, che sia più alla mia portata. Ho
lasciato
quasi tutte le mie risorse a Irena, pensando che ne avesse più bisogno
di me. Mi consolo considerando che, alla peggio, resterò a lavorare
come
cameriera, quanto basti per saldare il debito.La hall è ancora
piena di gente che discute animatamente, immersa nei soffici divani.
Ci
avviciniamo prima di salire alle nostre camere, anzi, quando
si accorgono del
nostro arrivo ci vengono incontro con vivo interesse.
Sono i"giornalisti di
prima linea”,soprattutto italiani,che
costruiscono
così i loro servizi, chiedendo notizie a chi arriva dall’al di là della
frontiera. Almeno in
quell’occasione questo è quel che ho constatato
di persona. Qualche ora di sonno molto
confortevole e riposante.
Poi, di nuovo, separazioni e saluti, con l’impegno a
rivedersi presto.
Io devo restare ancora per un poco, perché devo parlare con
qualcuno
dell’ambasciata francese per spiegare perché non siamo mai riusciti a
raggiungere la colonna, che comunque io sono passata senza problemi
alla frontiera,
mentre i due giornalisti sono bloccati senza molte speranze
di
poter risolvere da soli i loro problemi.In
serata prendo il treno per
l’Italia.Ci sono solo posti in piedi. Mi ricordo
allora di un viaggio
anch’esso notturno e molto affollato Paris -
Marseille, alcuni anni
prima,in piena guerra di liberazione dell’Algeria,
quando però i
numerosi Algerini – che a Marsiglia avrebbero dovuto proseguire
con la nave fino a Orano – mi cedevano a turno il posto a sedere.
Qui invece
non c’è traccia di galanteria e tantomeno di collaborazione
solidale.
Quell’orizzonte si deve, nel frattempo essere completamente
chiuso. Già a Tarvisio sono
allo stremo. A Milano sono costretta a
interrompere il viaggio e decido allora
di fare una sosta per riprendere
fiato e incontrare la mia amica Lelia e
la sua famiglia. Li raggiungo
proprio quando sono in partenza per la loro casa
sul lago di Garda.
Come un automa li seguo per il fine settimana.
Immersa nell'affetto sereno degli amici
E’ in un momento di lucidità residua che mi
preoccupo di telefonare
a casa per tranquillizzare i Miei.
Quando,
alla fine, approdo a Roma, sono convinta di uscire dalla Storia
per rientrare
nella normalità quotidiana. E invece...
Certo il ritorno a casa produce una forte emozione.
Sulle prime
l’emozione prende inevitabilmente il sopravvento, e la
preoccupazione,
che assorbe tutte le mie facoltà, quella di rincuorare i Miei, che
appaiono
particolarmente provati, anche se vorrebbero sembrare tranquilli
e contenti ,ora che tutto si è concluso per me,senza troppi danni visibili.
Ma, dopo qualche giorno,
la sensazione di disagio persiste, senza che,
peraltro, io riesca a individuarne
l’origine vera. Piccoli dettagli continuano
a infastidirmi oltre il dovuto e do
la colpa all’esperienza traumatica appena
vissuta. Libri fuori posto, oggetti
un po’ sciupati, come se fossero caduti e
avessero preso una botta. Comincio a
fare qualche domanda con discrezione.
alla fine la rivelazione dell’ultimo atto
del dramma.
Quando
i miei genitori sono tornati a casa precipitosamente per le
notizie degli avvenimenti praghesi, nella speranza di ricevere così qualche
segnale, di riuscire a stabilire più facilmente qualche contatto
(naturalmente anche
le linee telefoniche sono state interrotte e i vari
messaggi affidati agli
Italiani, pronti a rientrare in macchina, incontrati
per strada a Praga, non
sono mai arrivati) hanno trovato la devastazione.
Annus horribilis per
noi quell’anno! La notte prima del loro rientro
erano entrati i ladri a
casa ed avevano rubato, fracassato, insozzato,
imperversato con ogni sorta di
nefandezze. E i Miei avevano fatto
appena in tempo a ridare una parvenza di
normalità all’abitazione
per evitare che al mio rientro ricevessi una frustata
supplementare.
Una tragedia nella tragedia, insomma.Una stagione per me,
quella
dell’estate 1968, plumbea, nella dimensione pubblica e privata,
senza
scampo, irrimediabilmente indimenticabile. E se il tempo è,
come si suol dire,una buona medicina, per noi ne sono servite dosi
massicce per guarire alla
vita.
Epilogo.
Che esperienza, la mia! Tragica senza
alcun dubbio,
ma anche con aspetti paradossali
e in forte contrasto.
Come il terrore del primo impatto dei
Praghesi con i mig
appena atterrati che
vomitano tanki carichi di soldati
mongoli
che si rivelano presto un parto assurdo della paura. In contrasto
netto
con il comportamento che quegli stessi cittadini imposteranno
durante il giorno come se una voce sotterranea
rapidamente diffusa
li avesse concordemente spinti a un generalizzato, freddo
tentativo
di fraternizzazione con i biondi giovanotti in divisa sui carri
armati.
Iniziativa, a quanto pare, efficace, riuscita e giudicata molto
rischiosa,
se i dirigenti sovietici decidono che il giorno dopo tutte le truppe
devono essere sostituite e deve essere vietato in modo assoluto
qualsiasi
contatto dei nuovi soldati con i cittadini di Praha.
Coraggio ragionato – il popolo ceco trae il suo approccio cartesiano
alla vita
dal fatto di essere stato il protagonista,all’est dell’Europa,
della prima
rivoluzione industriale – ed
estremo,dettato dalla condizione
altrettanto estrema in cui si sono venuti a trovare inaspettatamente gli
abitanti della città in contrasto stridente con l’ingenuità totale dei soldati
di leva,convinti di partecipare semplicemente alle manovre abituali del
Patto di Varsavia, assolutamente
inconsapevoli di costituire un esercito
invasore. Razionali e iperattivi, i giovani praghesi che in un
baleno
bendano le statue dei loro eroi e pensatori perché non debbano osservare
tanto scempio e, ai loro piedi, si affannano a confezionare senza
sosta manifesti con cui ricoprire ogni muro della città perché tutti
siano informati di quel che sta accadendo insieme con le iniziative
per opporsi all’affronto assurdo patito; senza tuttavia dimenticare
di rendere pubblicamente esplicito,sempre
tappezzando i muri della
città, il forte legame di stima e di identità di
intenti tra il popolo e i
suoi rappresentanti eletti.
Efficaci e tempestivi i diplomatici
francesi che organizzano l’esodo
dei loro concittadini e anche altri stranieri
che il turismo congressuale
o culturale ha intempestivamente portato in
città,in opposizione,
purtroppo,netta e chiara con la totale inefficienza della
parallela
struttura organizzativa italiana che altrettanto prontamente si
svuota proprio nel momento in cui sarebbero indispensabili i
suoi servizi.
E ancora un contrasto
significativo: i capannelli di semplici
cittadini che avvicinano gli stranieri in uscita per porgere
malinconicamente lettere da impostare -una volta varcata la frontiera-
come
condannati rassegnati a una sorte ineluttabile e, come sarà reso
esplicito
qualche giorno dopo dalla stampa internazionale, l’iniziativa
capillare di
quegli instancabili cittadini anonimi che provvederanno a
modificare la
direzione di ogni segnale stradale per
offrire il proprio
contributo al disorientamento dell’occupante.
E per concludere la ben strana
cernita di esempi contrastati, quello
finale che oppone l’atmosfera plumbea di
Praga, con quella rilassata e
molto confortevole della hall del lussuoso
albergo viennese dove passano
il tempo della comoda attesa i giornalisti, per
scrivere i loro servizi
di
prima linea, nutriti dai racconti di alcuni fortunati fuoriusciti, scampati
all’inferno di
Praga.
E infine il contrasto più difficile da
accettare, quello storico-politico
di un popolo, quello cecoslovacco, che in modo più diffusamente convinto
e costruttivo tra quelli che facevano parte del
Patto di Varsavia aveva aderito
fin dall’inizio ai principi dell’etica e dell’organizzazione post –rivoluzionaria,
che, per assurdo, non aveva partecipato poi a quella destalinizzazione,
a cui
invece si erano dedicati i
Polacchi o gli Ungheresi e che, infine, una
volta
trovata la via di una soluzione fertile di serenità e sicurezza
economica,
incappi in una contro-iniziativa talmente estrema, grave e
intollerabile,
di cui neppure l’età staliniana era stata capace. Evidentemente
il livello
di gravità di un tal gesto non può appartenere che a politici
autoritari,
certamente,non autorevoli,ma, anzi, ottusamente inadeguati.
FINE